“Se ti accade, al mattino, di svegliarti pigro e indolente, tieni presente questo pensiero: "Mi alzo per riprendere la mia opera di uomo”
Marco Aurelio
Quando iniziamo a praticare, entriamo in un mondo di nuove conoscenze e nuovi apprendimenti che incominciano, solitamente, dal nostro bel cuscino di pratica. Parlerò di cuscino ma ci tengo a ricordare che la pratica da seduti su una semplicissima sedia ha lo stesso valore e la stessa qualità di quella che facciamo sul nostro esotico set di zafu e zabuton.
Sul cuscino di pratica, iniziamo ad esplorare quella che si chiama “pratica formale”: siamo seduti, con la schiena dritta ma non rigida, le gambe incrociate ma non accavallate, lo sguardo orientato qualche metro sul pavimento davanti a noi e le braccia morbidamente appoggiate sulle cosce. Se non stiamo praticando da seduti, allora saremo distesi, oppure in piedi, oppure staremo camminando.
Queste sono le 4 posture che, tradizionalmente, possiamo adottare per svolgere la pratica formale di meditazione, portando consapevolezza anche ai momenti di transizione (inizio, fine, cambio, aggiustamenti) che possono eventualmente esserci. Patañjali (filosofo indiano del II secolo aev, autore dello Yoga Sūtra contenente anche alcune importanti trascrizioni relative agli insegnamenti del Buddhismo Mahāyāna) afferma che una buona postura in meditazione è quella posizione in cui riusciamo a stare relativamente fermi e stabili. Sentiamoci quindi liberi di sceglierla e di variare.
La pratica formale si caratterizza per il fatto che, quindi, assumiamo una posizione ben definita e all’interno di quel setting, coltiviamo concentrazione e ci apriamo alla consapevolezza di ciò che emerge momento dopo momento.
In quanto istruttrice di Mindfulness e soprattutto praticante in prima persona, sono una ferma sostenitrice dell’estrema importanza della pratica formale quotidiana: un insostituibile momento di esplorazione e coltivazione del corpo-mente-cuore, un ricchissimo rivelatore di tutte quelle resistenze che possiamo avere nel fermarci e nell’aprire quel vaso di Pandora che siamo noi stessi.
In ogni caso, la sola pratica formale, per quanto irriducilmente necessaria, da sola non è sufficiente. Non possiamo pensare che praticare 30 minuti al giorno (se va bene) basti da solo a scrostare anni e anni di educazione posticcia, paure, aspettative, giudizi e altre simili amenità.
La pratica informale
La pratica formale viene integrata e approfondita dalla cosiddetta pratica informale. Durante la nostra giornata abbiamo a disposizione decine e decine di momenti in cui possiamo traghettare l’attitudine meditativa nelle attività cui normalmente ci dedichiamo. Dal bere un caffè al digitare sulla tastiera, dallo stare in coda alla cassa al camminare verso il luogo dove stiamo andando, dal mangiare il nostro pranzo al raccogliere i calzini lasciati per terra da nostro figlio/marito/compagno/convivente (donne comprese).
Tutte le attività della nostra vita possono (e devono) rientrare a pieno titolo in quella che possiamo considerare come una pratica non strutturata ma allo stesso modo fondamentale ed irrinunciabile nel nostro cammino di consapevolezza. Se un'ora al giorno la passiamo sul cuscino e siamo ben consapevoli, dove va il nostro corpo-mente-cuore nelle restanti 23 ore?
Se siamo onesti con noi stessi (e questo può capitare anche ai praticanti “avanzati”) ci accorgeremo del rischio di dividere in settori stagni la nostra meditazione. Pratichiamo sul cuscino, e appena suona la campana torniamo alla nostra solita e reattiva quotidianità, torniamo al “dormire da svegli”.
Per evitare una tale svista, ecco che la pratica informale ci offre l’occasione di illuminare anche la più “banale” attività quotidiana di una rinnovata ed eclatante freschezza. Quei piccoli gesti fatti solitamente con noncuranza, stizza, fretta diventano il nostro nuovo ed interessantissimo oggetto di meditazione. Possiamo scoprirci e sentirci immensamente pieni di gioia coccolando consapevolmente il gatto, lavando i piatti, o nella sala d’attesa del medico, e possiamo abitare una quieta serenità anche nel momento in cui riceviamo una brutta notizia, senza aggiungere quella secondaria sofferenza aggiuntiva (evitabile), al primo colpo (inevitabile perché obiettivamente già avvenuto), che abbiamo dovuto incassare.
Sviluppare i sette fattori del risveglio
Quando nella nostra pratica formale e informale sperimentiamo la piena presenza mentale, la consapevolezza, l’attenzione sostenuta, il non giudizio, la gentilezza e pian piano cerchiamo di ricordarci (dal pāli sati, che vuol dire non solo “consapevolezza” ma anche, appunto, “memoria, ricordo”) di coltivare attivamente queste abilità, potremo notare come gradualmente iniziamo ad incarnare i 7 fattori del risveglio di cui parla l’Ānāpānasati Sutta: consapevolezza, curiosità (investigazione), energia (impegno), gioia, quiete, stabilità ed equanimità.
In questo modo, perde di senso la differenza puramente didattica tra pratica formale e pratica informale: l’una è sostegno dell’altra, ed entrambe si ampliano a vicenda rendendo sempre più profonda e senza sforzo la nostra evoluzione.
DOTT.SSA FEDERICA GAETA
Terapista della Riabilitazione Psichiatrica
Istruttrice SENIOR protocolli Mindfulness
tel. 327 49 58 256