“Nessuna vita è rovinata, tranne quella la cui crescita si è arrestata.”
Oscar Wilde
Credo che sia un’esperienza comune a tutti noi quella di ricercare in modo maggiore le cose piacevoli: lo stare bene, la pace, il divertimento, e allontanarci da ciò che ci fa stare male o che ci dà fastidio. E’ una cosa normale, biologicamente corretta, serve per sopravvivere ma è anche la causa di quel continuo senso di insoddisfazione, noia e frustrazione che possiamo provare in alcuni momenti della vita.
Altra esperienza comune è quella di volere subito dei risultati tangibili, quindi abbiamo a volte poca pazienza, poca costanza, ci stufiamo presto, abituati come siamo in questa società moderna che ci ha educato alla gratificazione immediata. Non riusciamo più tanto a sopportare piccole, né tantomeno grandi, frustrazioni ai nostri desideri. E quindi riempiamo il tempo con mille cose, non ci fermiamo mai, diventiamo impazienti. A volte può capitare che aumentiamo il nostro sforzo per ottenere di più, oppure ci ritiriamo, ci rinchiudiamo nel nostro piccolo guscio protettivo dove non vogliamo saperne niente di niente.
C’è un filo conduttore in tutto questo: la reattività. Reagiamo in modo automatico a quello che succede, e questa reattività, quasi sempre inconsapevole, ci porta a fuggire continuamente dall’esperienza, in modi diversi, usando gli stessi ostacoli che emergono come alibi per non crescere.
I CINQUE OSTACOLI
Nella tradizione meditativa, i principali ostacoli vengono racchiusi in cinque categorie. Prima di parlare di queste categorie però, soffermiamoci un attimo sulla parola “ostacolo”.
Normalmente, consideriamo un ostacolo qualcosa che si contrappone tra noi e un nostro obiettivo, qualcosa che insomma ci mette i bastoni tra le ruote, che ci intralcia. Un ostacolo è qualcosa di cui vogliamo sbarazzarci, in modo da poter finalmente realizzare i nostri desideri.
Nella pratica meditativa, l’ostacolo è qualcosa che intralcia la consapevolezza, che ci impedisce di sviluppare le qualità positive di non-giudizio, accettazione, pazienza, gentilezza, compassione, eccetera. Questi ostacoli impediscono di raggiungere la chiara visione, cioè di vedere le cose al di là dei filtri, delle percezioni distorte, degli schemi appresi, delle convenzioni sociali, delle paure e degli stessi desideri.
Questi ostacoli annebbiano la vista ma svolgono anche una funzione meravigliosamente importante: gettano luce sulle nostre resistenze, sulle nostre reattività, sulla difficoltà che abbiamo a cambiare noi stessi pretendendo che sia tutto il resto ad adeguarsi a noi. E’ accogliendo questi ostacoli come parte integrante del lavoro interiore (e non come fastidiose seccature!) che possiamo crescere oltre ad essi, senza rimanere vittime di qualcosa che, in realtà, possiamo imparare a gestire con sempre maggior abilità.
La cosa interessante degli ostacoli nella meditazione è che sono molto evidenti nella pratica, mentre siamo belli belli seduti sul cuscino, ma sono gli stessi che incontriamo nella vita, per questo è importantissimo imparare a conoscerli e a toccarli da vicino, allenandoci con la pratica meditativa.
Per chi è interessato ad una versione poetica dei 5 ostacoli, ecco il link della mia poesia "I Cinque Maestri".
IL PRIMO OSTACOLO: L’ATTACCAMENTO
Immaginiamo di tenere in mano qualcosa di delicato a cui teniamo molto, che ci piace e non vogliamo perdere. Rischiamo ad ogni colpo di vento, ad ogni urto casuale che questo ci cada di mano e si rompa, andando perso per sempre. Quindi la nostra reazione più automatica è quella di stringere le dita della mano intorno all’oggetto, agguantarlo, tenerlo stretto cosicché non possa cadere. Ci siamo attaccati. E’ qualcosa di bello, di piacevole, la nostra mano stringe e rimane stretta, così stretta che presto o tardi ci accorgiamo che inizia a fare male; le dita iniziano ad indolenzirsi, i muscoli vanno sempre più in tensione.
Qualcosa di bello si sta trasformando in qualcosa di spiacevole. Non stiamo più godendo della bellezza di quella cosa a cui teniamo tanto, ci stiamo solo ciecamente difendendo dal rischio di perderla, e così facendo, soffriamo. Questo è l’attaccamento.
Nella pratica meditativa, l’attaccamento sorge quando sperimentiamo esperienze piacevoli, quando ci sentiamo rilassati e leggeri, quando siamo concentrati, ecc...Iniziamo a desiderare che questa esperienza duri a lungo, vogliamo ricrearla, ci irritiamo se non riusciamo più a provarla, diventiamo rigidi. La bellezza dell’esperienza, a cui ci siamo attaccati, smette di essere piacevole e noi cadiamo nella reattività.
Come lavorare con l’attaccamento? Iniziando a riconoscerlo. E’ normale che ci sia quando incontriamo qualcosa di bello, ma possiamo renderci conto di quando la nostra mente tende verso la rigidità, il trattenere, il cercare il piacevole, e notare com’è questa tensione. Senza scacciarla, semplicemente notare. E pian piano possiamo notare se ci è possibile, in qualche modo, godere della cosa bella senza la sofferenza dell’attaccamento?
IL SECONDO OSTACOLO: L’AVVERSIONE
Ah, se soltanto non ci fosse questo mal di schiena, come potrei praticare bene!
Ah, se soltanto riuscissi a concentrarmi!
Ah, se soltanto i vicini la smettessero di fare rumore!
Ah, se soltanto avessi più soldi/più tempo libero/fossi più magra/più grassa/più bella/più simpatica!
Ah, se soltanto questa pratica fosse meno noiosa!
Odio, fastidio, irritazione, rabbia, insofferenza, noia, rifiuto, disgusto, risentimento, colpa.
Questi alcuni dei “sintomi” dell’avversione.
Un’esperienza non ci piace e iniziamo ad agitarci nella pretesa che il mondo giri come vogliamo noi. Un po’ come i capricci di un bambino, vorremmo che le cose fossero diverse.
Anche per l’avversione, il primo passo è riconoscere che è arrivata a trovarci, come un visitatore inatteso, senza rifiuto, senza lottare contro di essa, ed esplorarla con curiosità. Non vuol dire che debba piacerci! Ma intanto è quello che c’è, è la nostra esperienza, e non ci porterà a nulla (se il nostro cammino è la crescita interiore) far finta che non ci sia o fare i capricci.
Con l'avversione, possiamo lavorare di dolcezza. Possiamo coccolarla, abbracciarla, perché come un bambino impaurito, è di questo che essa ha bisogno. L’avversione contiene un messaggio che una parte di noi sta cercando di inviarci: di che cosa ha bisogno quella parte infastidita, arrabbiata, ferita, delusa? In che modo possiamo confortarla?
IL TERZO OSTACOLO: SONNOLENZA E TORPORE
Quante volte è capitato di addormentarci durante una pratica? O di rilassarci così tanto che però non ci sentivamo proprio lucidi (e la meditazione dovrebbe aiutarci a diventare più svegli, non a dormire)?
Inutile a dirsi, se stiamo dormendo non stiamo meditando, non stiamo lavorando sulla consapevolezza e non stiamo crescendo.
La sonnolenza può essere a livello fisico o a livello mentale, in quest’ultimo caso la chiamiamo torpore. A livello fisico, sentiamo il corpo estremamente rilassato (troppo!), le palpebre pesanti, magari ondeggiamo anche un po' avanti e indietro col busto, mentre a livello mentale sentiamo che la nostra attenzione è debole, pigra, non si accorge di tutti gli elementi dell’esperienza che scorrono ma è in una sorta di trance. Può sembrare un comodo e caldo rifugio, e invece che stare a praticare preferiamo farci cullare da questa cortina di fumo.
Lavoriamo con la sonnolenza cercando di riconoscere i messaggi del corpo, quando veramente ci sentiamo stanchi e abbiamo bisogno di un po’ di riposo, o accogliere il messaggio della mente che sta facendo fatica ad uscire dalla sua zona di comfort. Quando sorge la sonnolenza durante la pratica, è buono cercare di dispellerla, aprendo un attimo gli occhi, facendo dei movimenti, anche alzandosi e proseguendo la pratica dalla posizione in piedi. Possiamo chiederci se c’è qualcosa che in questo momento non abbiamo voglia di esplorare, rivolgendo a quella parte di noi uno sguardo ed una cura gentile e compassionevole.
IL QUARTO OSTACOLO: AGITAZIONE E PREOCCUPAZIONE
Il contrario di addormentarsi durante la pratica è quello di agitarci, essere nervosi, muoverci in continuazione, cambiare posizione, grattarci, sistemare occhiali, capelli, gioielli, la coperta, eccetera...una agitazione quindi a livello fisico, ma che si manifesta a livello mentale come proliferazione dei pensieri, preoccupazioni, il passare in rassegna gli impegni della giornata, il ripensare a cose successe, il trastullarci in storie che ci intrattengano invece di meditare.
Non possiamo evitare che arrivino pensieri, ma possiamo essere consapevoli del loro arrivo e mantenere la vigilanza. Accoglierli senza avversione, e non cadere dentro la narrativa, dentro il contenuto di quel pensiero. Il lavoro della meditazione non è essere senza pensieri, ma è saperli gestire in modo saggio quando arrivano. Di nuovo: non cedere alla reattività del pensiero compulsivo.
Come si fa? Praticando. Nella pratica, riconosciamo l’arrivo di un pensiero, non lo scacciamo, gli diamo semplicemente spazio, lo trattiamo con onore e lo osserviamo con curiosità. La curiosità è molto importante perché ci aiuta a togliere il filtro del “già conosciuto”, filtro che ci impedisce di vedere altro.
E se c’è agitazione nel corpo? Tutti quei pruriti che arrivano all’improvviso...Abbiamo mai provato a dimorare nell’immobilità? Cosa succede ai pruriti? Cosa succede al mal di schiena se, per alcuni istanti, evitiamo di muoverci e lo osserviamo con un’attenzione gentile e premurosa?
IL QUINTO OSTACOLO: IL DUBBIO
Chi abbandona la pratica o chi pian piano la lascia andare, spesso lo fa perché è rimasto incastrato in questo vischioso ostacolo. Il dubbio getta un alone di incertezza paralizzante su quello che stiamo facendo.
Ci sentiamo come se stessimo perdendo tempo, come se i benefici tanto sperati stessero tardando ad arrivare o avessero smesso. Abbiamo perso la fiducia nel funzionamento della pratica, cadendo senza saperlo nella trappola della performance. Dobbiamo performare. Dobbiamo dimostrare che questa cosa qui sta funzionando. Dobbiamo far vedere agli altri o a noi stessi che stiamo subito meglio, che siamo più felici, più bravi, più gentili, più concentrati, più rilassati. Se questo non avviene, ecco che iniziamo a dubitare.
Come si lavora col dubbio? Innanzitutto, praticando con esso possiamo iniziare a vedere com’è fatto e cosa nasconde. Potrebbe esserci un altro degli ostacoli visti finora, o potrebbe esserci una qualche forma di paura o di resistenza. Qualsiasi cosa troviamo, fa parte della pratica. Possiamo esplorare com’è la sensazione di stare perdendo tempo, dove si presenta nel corpo, da quali pensieri viene alimentata, qual è l’effetto di questi pensieri su di noi, e portandovi la consapevolezza, possiamo decidere cosa alimentare.
L’importanza degli ostacoli
Nella pratica di consapevolezza, questi ostacoli sono importanti perché ci aprono in modo facile una finestra sulle nostre reazioni automatiche. Hanno però il grande potere di renderci ciechi perché spesso non ci accorgiamo di essere intrappolati in un ostacolo ma crediamo che esso sia la realtà, o che addirittura sia una cosa piacevole (come nel caso della sonnolenza che spesso viene scambiata per un buon stato di rilassamento).
Ma è proprio qui che si lavora con la consapevolezza. Possiamo chiederci in ogni momento: dov’è l’attaccamento adesso? Questa mia reazione è dettata dall’avversione? Cosa c’è sotto la mia preoccupazione? E sotto il mio dubbio? Cos’è che non ho voglia di vedere più da vicino?
La pratica ci invita non a pretendere di avere subito le risposte, ma a osservare il processo, conservando in ogni istante quell’atteggiamento di non giudizio, di gentilezza, di delicatezza anche verso noi stessi e le nostre difficoltà.
DOTT.SSA FEDERICA GAETA
Terapista della Riabilitazione Psichiatrica
Istruttrice Qualificata Interventi Mindfulness e prot. MBSR
tel. 327 49 58 256